Affrontare l’ansia da performace musicale

ansia da prestazione musicale

L’ANSIA DA PRESTAZIONE

 L’ansia da prestazione è uno stato di allerta che scaturisce da una situazione in cui il soggetto percepisce di dover essere allaltezza” in una prova sottoposta al giudizio altrui, implicito o esplicito che sia.

Come già ci suggerisce l’etimologia della parola “ansia”, dal lat. anxus-angere: stretto-stringere, soffocare, quando una persona si sente “senza via d’uscita” e avvolta da un contesto potenzialmente rischioso, innesca automaticamente delle azioni finalizzate a sottrarsi o a inibire tale condizione di disagio.

Nello specifico, un recente studio pilota svolto da un gruppo di ricercatori appartenenti a diverse università degli Stati Uniti ha evidenziato che, in ambito musicale, l’ansia da prestazione è stata considerata come potenzialmente debilitante sia per gli studenti universitari di musica  (riguardando il 21-23% degli allievi), che per i musicisti orchestrali professionisti (interessando il 15-25% degli stessi).

 

COME SI RICONOSCE L’ANSIA DA PERFORMANCE MUSICALE?

 

Le manifestazione tipiche dell’MPA riguardano specifici comportamenti, pensieri, emozioni e stati fisiologici che si attivano in concomitanza con la prestazione musicale, o anche con il solo pensiero anticipatore della stessa.

Si può ritenere di essere musicisti, più o meno, soggetti da disturbo d’ansia da perfomance quando ci si rispecchia in ognuna delle seguenti tre categorie:

 

  1. SINTOMI COGNITIVI:

 

sintomi ansia prestazione musicale

  1. Esempi di ECCITAZIONE FISIOLOGICA

esempi eccitazione fisiologica

  1. Esempi di EVITAMENTO COMPORTAMENTALE

comportamenti ansia prestazione

Capire il meccanismo alla base dell’ansia da prestazione

Il controllo non è la soluzione, ma il problema

Ora che abbiamo descritto come si manifesta l’ansia da prestazione, cerchiamo di capire quando l’ansia da “normale” si trasforma in patologica, in una minaccia per ciò che è importante per noi.

Per definizione, alimentiamo o gestiamo l’ansia in tre diverse fasi:

  • Quando ci prepariamo all’evento
  • Durante la performance quando si presenta l’ansia vera e propria, che si manifesta con reazioni fisiologiche, comportamentali e cognitive.
  • Quando tutto è finito, ci guardiamo indietro e tiriamo le somme.

 

Ognuna di queste fasi è un’occasione per intraprendere un sentiero virtuoso, di crescita e sviluppo di capacità, oppure per intraprendere la via che piano piano ci porterà all’ansia patologica che interferisce con la performance e la professione.

 

FASE 1 – Performance in vista

In questa fase iniziamo già a sentire le presenza dell’ansia che ci segue come un’ombra: ci basta pensare alla performance che ci aspetta per iniziare a sentire il cuore che batte più velocemente, le gambe che perdono la loro forza e le mani che si raffreddano. La mente è infatti un potente strumento in grado di suscitare emozioni. Il fatto che la mente cerchi di anticipare attraverso l’immaginazione l’evento stressante  è una funzione evolutiva estremamente importante e adattiva. Il problema nasce da come gestiamo le immagini che la mente dipinge davanti ai nostri occhi. Proprio in presenza dell’immagine dello scenario futuro, si trova il primo bivio tra ansia normale e ansia patologica.

 

Prendere il sentiero dell’ansia patologica significa:

  • cercare rassicurazioni da altri,
  • farsi guidare da un’eccessiva autocritica con un lavoro tecnico estremamente rigido e duro,
  • evitare di pensarci, convincendosi che andrà tutto bene,
  • rimuginare, creando infiniti possibili scenari.

Questo sentiero da noi psicologi è chiamato sentiero dell’EVITAMENTO e innesca un circolo vizioso molto pericoloso. Nel momento in cui mettiamo in atto un comportamento di evitamento, proviamo sollievo: il sollievo, essendo piacevole, sembra indicarci che stiamo andando nella strada che risolverà tutti i nostri problemi d’ansia. Il problema è che questi comportamenti che funzionano donandoci sollievo nel breve termine, spesso hanno effetti problematici nel lungo termine.

Cos’hanno in comune queste strategie? Ci danno un dolce senso di CONTROLLO. Funzionano? Beh, nel lungo termine sembra proprio di no, anzi, minacciano la fiducia in noi stessi e l’esito della performance imminente o, peggio, se ci facciamo male, la possibilità di continuare a svolgere la nostra professione.

Prova ora tu a riflettere sulle tue strategie di evitamento.

FASE 2- ARRIVA IL GIORNO DELLA PERFORMANCE

Il giorno della performance, che lo si voglia o no, arriva lei, impeccabile e sempre puntuale: la nostra ANSIA! Ci accompagna ad ogni evento importante e inizia a sussurrare al nostro orecchio: “Sarà un disastro, guarda chi c’è tra il pubblico, ti giudicheranno! Stai male, non puoi dare il meglio in queste condizioni…”. L’ansia ci terrà svegli di notte, ci toglierà forze ed energie o ci farà sentire rigidi come dei baccalà (nonostante anni per acquisire fluidità e velocità nei movimenti). Ci sentiremo poco concentrati, inappetenti e con un unico grande desiderio: scappare via!

Ma ricorda: esibirsi in pubblico è da sempre. per ogni essere umano, una delle situazioni più stressanti – paragonabile ad affrontare un leone armati di arco e frecce. Quindi un musicista che prova ansia prima di una performance, tecnicamente non soffre di “ansia da performance”: sta semplicemente rispondendo a uno stimolo universalmente stressante.

Ancora una volta il problema non sta in questa nostra fedele, anche se poco gradita, compagna di viaggio, ma come rispondiamo alla sua presenza. Siamo di fronte a un secondo bivio, dove un sentiero è virtuoso e l’altro patologico.

Esaminiamo il sentiero patologico.

Spesso quando si presenza questa scomoda compagna di viaggio, la prima cosa che ci viene voglia di fare è cacciarla via. E così inizia una vera e propria lotta fatta di ricerca di rassicurazioni, tentativi di controllare il corpo, assunzione di alcol, psicofarmaci, fiori di Bach. Diventa un battibecco di pensieri:

“Non ce la farai mai”

“E invece sì, ho studiato, stamattina il passaggio difficile era perfetto”

“Eh…stamattina! Ti sei già bruciato la carta…”

“Ma stai zitta e non portare jella!”

“Sai bene che quella nota l’hai sbagliata anche ieri… se ne accorgeranno tutti, sarai una delusione…”

… e avanti all’infinito finché qualcuno con un calcio non ci lancia sul palco.

Il cortocircuito dell'ansia

Questa lotta è un grande dispendio di energie e risorse, e non può essere vinta a colpi di pensieri: il sistema della minaccia si è sviluppato molto prima della nostra corteccia pensante. Il sistema della minaccia da cui nasce l’ansia infatti era già sviluppato e funzionante a partire dei dinosauri, quindi siamo di fronte alla lotta contro un sistema che ha milioni e milioni di anni contro una neonata corteccia pensante che risale a ieri, appena 200.000 anni fa. È come far giocare a scacchi un campione mondiale con pluridecennale esperienza e un bambino di qualche mese: secondo voi chi vincerà? Quindi, per quanto possiamo non volere la nostra ansia e lottare contro di essa, teniamo bene a mente questo concetto: non riusciremo mai a sconfiggerla e a controllarla. Ma allora, di nuovo, perché continuiamo a cedere alla tentazione di controllare l’ansia? E la risposta è simile a quella di prima: provare a fare qualsiasi cosa per controllare l’ansia ci dà un immediato senso di sollievo, controllo, forza. Ci fa sentire meno VULNERABILI.

Ora prova di nuovo a riflettere su cosa fai il giorno prima della performance.

FASE 3- DOPO LA PERFORMANCE

C’è un ultimo passaggio cruciale in cui rischiamo di trasformare l’ansia da normale in patologica. Vale a dire quello che noi facciamo dopo l’esibizione. Dopo la performance, sia nel caso in cui sia andata meravigliosamente, sia nel caso in cui sia stato un totale disastro, ci ritroveremo, ancora carichi di adrenalina, a ripensare a come è andata. Magari lo racconteremo agli amici, alle persone per noi importanti, o anche, semplicemente, lo rivedremo in testa, più e più volte. A questo punto però ci sono due modi per rivedere quanto è appena accaduto: un modo virtuoso e un modo che alimenta la patologia.

Il modo che alimenta la patologia è quello giudicante e critico. Diventiamo i maestri più severi, intolleranti e rigidi che si siano mai visti. Invece di validare gli sforzi e concederci del meritato riposo, ci ritroviamo a punire noi stessi, isolarci, insultarci arrabbiati, colpevolizzarci riguardo ogni singolo dettaglio diverso dal copione dell’assoluta perfezione. Di solito questo modo di trattarci ci fa stare malissimo.

Ma vi siete mai chiesti perché siamo così duri con noi stessi? Ebbene, non siamo pazzi: l’autocritica è una “app” (cioè uno schema automatico di comportamento) installata automaticamente nel nostro cervello dall’evoluzione. L’autocritica, infatti, di sicuro ci sprona a migliorarci e a non accontentarci della mediocrità. Grazie all’ansia o alla rabbia che causa e alla loro conseguente attivazione fisiologica, ci fa sentire più energici e forti. Anche questa strategia, come le altre, non è totalmente insensata e folle. Infatti, a volte ci motiva a tenere duro fare di più.

Ma anche questa strategia ha un alto costo nel lungo termine. Infatti se è l’unico modo che usiamo per andare avanti, influenzerà negativamente la fiducia in noi stessi, ci distoglierà l’attenzione dal perché stiamo facendo quello che facciamo, promuoverà comportamenti poco attenti alla cura di noi stessi che sfoceranno con l’ammalarsi e farsi male per la troppa pratica. L’autocritica ci dà sì un senso di controllo, ma quando si tira troppo la corda, la corda si spezza e noi non siamo indistruttibili… anzi!

 

Possiamo riassumere quanto detto finora riprendendo il titolo di questo paragrafo: “Il controllo non è la soluzione ma il problema“. Come abbiamo visto, alcuni tentativi di controllare il disagio non fanno che peggiorarlo. La trappola è che questi tentativi sembrano offrire uno spiraglio di luce nel malessere in cui ci troviamo, ma non sono che specchietti per le allodole.

Ora che abbiamo visto quali sono le trappole mentali in cui rischiamo di incappare, proviamo a fare il percorso inverso cercando di capire come cambiare rotta a uscire da questo tunnel che alimenta l’ansia.

 

Gestire l’ansia da performance

Invertire la rotta: andare verso la performance perfetta

Nell’invertire la rotta iniziamo dalla fine, ripercorrendo al contrario la strada appena fatta.

FASE 3 – Imparare dagli errori, con gentilezza

Abbiamo accennato a un particolare modo attraverso cui possiamo riguardare quello che abbiamo vissuto. Un modo colpevolizzante, giudicante, duro. L’alternativa a questo modo è quello virtuoso, da noi psicologi chiamato Self Compassion o auto-compassione.

Prima di vedere cos’è l’auto compassione vediamo cosa non è. L’auto-compassione non è essere deboli e accontentarci di poco. L’auto-compassione non è rinunciare a raggiungere gli obiettivi e non è una forma di “buonismo” volta alla rinuncia e al mollare.

Vediamo invece cos’è l’auto-compassione. L’auto compassione è come avere il nostro migliore amico sempre a fianco, pronto a sostenerci, comprenderci e motivarci con un abbraccio, una pacca sulla spalla, una battuta, intrisi di affetto e un profondo desiderio che ce la facciamo e siamo felici. È una figura molto diversa dal maestro rigido e giudicante di prima, vero? Chi preferireste avere sempre al vostro fianco nei momenti difficili? Sviluppare l’auto compassione significa sviluppare una particolare parte di noi stessi forte, saggia, che vuole il meglio per noi e sa cos’è importante… La compassione è un atteggiamento mentale, e in quanto tale può essere sviluppata.

La compassione si sviluppa attraverso delle pratiche meditative o immaginative. Tra le pratiche meditative, troviamo la meditazione metta, o gentilezza amorevole, che è una pratica basata sullo sviluppare atteggiamenti di gentilezza nei confronti nostri e degli altri. Questa pratica può arricchirsi immaginando di donare a noi stessi gentilezza e comprensione nei momenti di difficoltà (quando in automatico ci verrebbe da criticarci). Queste pratiche fanno parte della tradizione buddista, ma sono state “occidentalizzate“ e rese più fruibili attraverso il Mindful Self Compassion Program di Gartner e della Neff, psicologi clinici e ricercatori che da anni cercano di promuovere in tutto il mondo questo atteggiamento verso se stessi.

 

Un altro autore, stavolta europeo, che ha parlato di compassione è Paul Gilbert. Il suo training, focalizzato sullo sviluppo della compassione, oltre a impiegare tecniche meditative, impiega anche tecniche immaginative e basate sulla scrittura. Questo arricchisce notevolmente il panorama delle possibilità pratiche e l’accessibilità alle tecniche da parte di un pubblico più ampio (la meditazione non sempre è accessibile a tutti fin da subito). Quali sono i benefici dello sviluppo della compassione? Nel breve termine ci possono essere benefici legati alla piacevolezza o al rilassamento che questo tipo di pratiche suscitano. Ma possono anche suscitare noia, fatica, dubbi, senso di agitazione. L’effetto nel breve termine non è un buon criterio per valutare se queste pratiche sono utili. Nel lungo termine invece è stato dimostrato che la compassione aumenta la qualità di vita e promuove una serie di comportamenti volti alla cura di noi stessi, ci rende più coraggiosi di fronte alle sfide, aumenta la fiducia in noi stessi e ci motiva ad andare avanti. Quindi, perché non provare?

 

FASE 2- Focalizzarci su cosa è davvero importante

Andiamo invece adesso ad analizzare cosa possiamo fare durante la performance, quando al nostro fianco arriva la temutissima ansia, dicendoci che non ce la faremo, che sarà un disastro, che verremo giudicati. Quello che abbiamo imparato sulla auto-compassione può aiutarci anche nella relazionarci con la nostra ansia. L’auto compassione con la sua saggezza può aiutarci a comprendere che la presenza dell’ansia è legata all’importanza del momento e in qualche modo, lei è lì proprio per aiutarci a fare del nostro meglio.

AIUTARCI?!?

Sì! Dalla letteratura sappiamo che le migliori performance sono quelle con un pizzico di pepe, ovvero di ansia. Un livello ottimale di ansia, infatti, aumenta la nostra concentrazione, ci rende più focalizzati sul compito e connessi con quello che stiamo facendo, facendoci percepire meno lo sforzo. L’ansia, inoltre, ci aiuta a ricordarci una cosa importantissima: e cioè il perché siamo lì.

Vi ricordate quando avete deciso che la vostra strada era la musica? Forse è stato un momento in cui avete realizzato che la musica sapeva donarvi emozioni, sentimenti meravigliosi. O forse è stato un momento in cui attraverso la musica vi siete sentiti connessi, a chi suonava con voi, ai musicisti che vi hanno preceduto, agli esseri umani o alla vita nel suo senso più lato. Probabilmente non avete scelto di fare i musicisti durante un esame difficile, o praticando scale. Forse neanche mentre studiavate solfeggio. In qualche modo, l’ansia è lì per ricordarvi proprio di questi valori, anche se lo fa mostrandovi che potreste perdere tutto ciò.

Torniamo sui valori. Prova a farti alcune domande:

  • C’è stato un momento in cui ti sei veramente sentito connesso con quello che stavi suonando? Com’era il tuo sguardo, la tua attenzione, i tuoi pensieri, il tuo corpo?
  • Per cosa vale veramente la pena rischiare e sbagliare?
  • Se tu non potessi mai più suonare ed esibirti, cosa ti mancherebbe più di ogni altra cosa?
  • Che qualità o caratteristiche ha un musicista o compositore che stimi, al di là della tecnica, come persona?

È importante che ti prendi il tempo di rispondere a queste domande e, quando la tua ansia dice che sbaglierai il passaggio difficile, perché dovevi fare di più, il tuo amico compassionevole, cioè quella parte di te stesso saggia, gentile e che è lì per sostenerti a farcela, può ricordare alla tua ansia che sei lì per vivere la musica e donare agli altri emozioni, immagini, sensazioni fisiche che solo la musica può regalare… non per essere perfetto. È importante durante la performance continuare a spostare l’attenzione degli scenari catastrofici dell’ansia al motivo per cui siamo lì, alle sensazioni e alle emozioni connesse con il valore di ciò che stiamo facendo. Se riusciamo a focalizzarci sui valori, comunque vada, sarà stato un successo!

Ricordiamoci, infatti, che la tecnica, il perfezionismo e l’ascolto giudicanti sono atteggiamenti che poco hanno a che fare con il valore della musica. Come ci ricorda Mithen, un archeologo appassionato di musica, la musica, la danza e il canto hanno preceduto la parola, ed erano parte della quotidianità della vita dei nostri antenati. La musica è stata un concetto chiave per l’evoluzione: ha permesso all’uomo di comunicare emozioni, di connettere i membri del gruppo, di alleviare dolori e sofferenze, di sedurre e ammaliare. Solo successivamente è nato il linguaggio e con lui, il giudizio. Quindi, tutto ciò che si dice della musica, non è musica: la musica, anche se ha molto in comune con il linguaggio, ha a che fare con un’esperienza che coinvolge interamente ciò che siamo, sia mentre facciamo musica, sia mentre la ascoltiamo. Quindi riassumendo, durante la performance togli quello che c’è di troppo, vale a dire il giudizio e tieni invece ciò che più conta: la musica.

 

FASE 1- Cercare la peak performance e allenare nuove abilità mentali

Per concludere la nostra inversione di rotta, c’è un ultimo passaggio da fare. Dobbiamo prepararci adeguatamente all’evento. Non sto parlando della preparazione tecnica, quella parte di solito è ben impostata e supervisionata. Sto invece parlando della preparazione mentale. Prepararsi non significa focalizzarsi su come evitare il disastro, ma su come garantirci di aver preparato al meglio il trampolino per il lancio. Il lancio verso cosa? Verso l’esperienza ottimale o peak performance. Questo è un concetto purtroppo poco studiato nei musicisti, anche se in letteratura qualche articolo qua e là è presente. Il concetto dell’esperienza ottimale, Flow, o peak performance è molto noto tra gli sportivi. Ogni sportivo olimpico, viene allenato anche mentalmente e questo non è un caso o una coincidenza. Le performance perfette infatti, non sono solo frutto di un allenamento fisico, ma anche di una preparazione mentale, fatta di concentrazione, capacità di focalizzarci sugli obiettivi e orientamento a lavorare di volta in volta sui possibili ostacoli o punti deboli.

Se ci pensi, i samurai per prepararsi ai combattimenti non facevano flessioni, meditavano! L’idea che li guidava era che “se ti distrai, sei morto“. Purtroppo nel training per diventare un musicista viene data poca importanza alla preparazione mentale e alla focalizzazione dell’attenzione. Eppure ricordiamoci che l’attività del suonare o del cantare passano attraverso il nostro corpo e il nostro cervello.

Come si lavora allora sulla peak performance? Una cosa che probabilmente fai già è la parte tecnica: l’esercizio è davvero importante! Oltre all’esercizio pratico e tecnico, la peak performance può essere preparata attraverso tecniche di meditazione e  immaginazione.

Per quel che riguarda la meditazione, se siamo molto autocritici, può di sicuro esserci utile la meditazione metta, che abbiamo citato prima per lo sviluppo della compassione. Però un’altra forma di meditazione che può fare la differenza e che sviluppa proprio le aree corticali legate all’attenzione focalizzata, è la Mindfulness, chiamata anche meditazione del qui ed ora. La pratica della mindfulness consiste nel concentrare l’attenzione su uno stimolo, come il respiro, e ritornarvi ogni volta che ci distraiamo. Detta così sembra facile, ma al nostro cervello questa attività “noiosa, non finalizzata e ripetitiva“ non piace granché, e cerca di opporre resistenza in tutti i modi possibili e immaginabili. È proprio attraverso il riconoscere questi ostacoli che impariamo a rispondere alle nostre reazioni interne automatiche in modo diverso e più consapevole.

Un altro esercizio molto usato dagli sportivi, ma che è altrettanto utile per i musicisti è l’immaginazione. È importante dedicarsi all’immaginare il momento della performance, in un modo particolare:

  • Senza lasciarsi andare a una immaginazione libera che può diventare catastrofica o, al contrario, idilliaca e senza l’ombra di imprevisti o difficoltà,
  • costruire una performance verosimile, fatta di odori, luci, suoni, sensazioni fisiche ed esaminare attentamente le nostre reazioni automatiche a determinati stimoli e prendendoci poi il tempo di calmare (fisiologicamente) queste reazioni.
  • Inoltre, è importante provare a “giocare” sull’affrontare degli imprevisti e ragionare su come farvi fronte.

Lavorare in modo analitico e concreto imprevisti indesiderati e reazioni automatiche probabili, ci predispone a far fronte alla situazione difficile nel momento del bisogno. Ricordiamoci infatti che quando siamo in preda all’ansia, le nostre capacità attentive e di scelta si riducono, perché l’ansia, per sua natura, è istintiva e quindi tenderà a farci fare ciò che abbiamo sempre fatto in quella situazione. Per cambiare questo comportamento automatico dobbiamo prepararlo e allenarlo prima, quando siamo in una situazione in cui ci sentiamo al sicuro e in cui il nostro cervello è aperto e disponibile a nuove possibilità, perché non è minacciato. A quel punto, quando arriverà il momento critico, avremo già disponibile, perché elaborata in precedenza, una nuova possibilità per rispondere alla difficoltà.

Questo lavoro ovviamente non va fatto un mese, aspettandosi di raccoglierne i frutti per il resto della vita. Proprio come fanno gli atleti olimpionici, è un lavoro che deve accompagnare costantemente la pratica del musicista, e deve affinarsi. Come la tecnica di un musicista può farsi sempre più precisa e accurata, ed è un pozzo senza fondo, così, anche la pratica mentale funziona allo stesso modo. Significa che incontreremo sempre nuove sfide, nuovi ostacoli, nuovi pensieri o dubbi che ci metteranno alla prova.

 

Riassumendo, se soffri di ansia da performance, ricorda che non è colpa tua: probabilmente nessuno ti ha insegnato come affrontarla, e quali capacità mentali sviluppare per far fronte ad essa. Non è colpa tua, ma è tua responsabilità trovare una strada per imparare a gestirla. In questa strada alternativa incontrerai fatica, dubbi e la resistenza di tutti quei vecchi meccanismi, come l’autocritica, che non vorranno cedere il posto ad atteggiamenti nuovi. Potrà essere una strada difficile, soprattutto se intendi farla da solo, ma non scoraggiarti: pensa a quanta strada hai fatto finora, e ora, il training mentale, non è che un nuovo cammino da intraprendere, in primis per te.

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