Come l’autocritica nutre i disturbi alimentari

perfezionismo e disturbi alimentari

Introduzione

 

Questo articolo ha lo scopo di chiarire il meccanismo attraverso cui l’autocritica e la vergogna influenzano i disturbi alimentari. Immaginate una ragazza o una giovane donna che si vergogna del proprio aspetto; che fa fatica a fare shopping perché non le piace mai come le stanno i vestiti; che si sente sconfitta ogni volta che la bilancia segna 2 etti in più; che quando vede davanti a sé una pizza non pensa al piacere di mangiarla in compagnia, ma alle calorie che il suo corpo assorbirà. Presumibilmente questa ragazza avrà anche dei pensieri molto critici su sé stessa. Qualsiasi occasione sarà buona per convincersi di essere una fallita, di non avere alcun valore, che gli altri la respingeranno e si vergogneranno di lei come lei si vergogna di sé stessa. E la vergogna sarà un altro dei sentimenti principali che accompagneranno questa ragazza. Ecco, avete appena immaginato una ragazza che soffre di disturbi alimentari.

 

Ma cosa sono esattamente i disturbi alimentari? Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5) li racchiude sotto la definizione di Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione e riporta che “sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da comportamenti inerenti l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo o assorbimento di cibo e che compromettono significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale”. Fra i disturbi alimentari troviamo:

  • La pica, caratterizzata da una “persistente ingestione di una o più sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili”;
  • Il disturbo da ruminazione, caratterizzato da un “ripetuto rigurgito del cibo dopo la nutrizione o l’alimentazione”;
  • Il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, caratterizzato da “evitamento o restrizione nell’assunzione di cibo [senza] alcuna evidenza di un disturbo nel modo in cui vengono vissuti il peso o la forma del proprio corpo”;
  • L’anoressia nervosa, caratterizzata da:
    • “persistente restrizione nell’assunzione di calorie”;
    • “intensa paura di aumentare di peso o di diventare grassi, oppure un comportamento persistente che interferisce con l’aumento di peso”;
    • “presenza di una significativa alterazione della percezione di sé relativa al peso e alla forma del corpo”.
  • La bulimia nervosa, caratterizzata da
    • “ricorrenti episodi di abbuffata”;
    • “ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso”;
    • “livelli di autostima indebitamente influenzati dalla forma e dal peso del corpo”.
  • Il disturbo da binge eating, caratterizzato da “ricorrenti episodi di abbuffata”. Per abbuffata si intende “il mangiare in un determinato periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili” e di solito è accompagnata da una sensazione di perdita del controllo.

Chi è più predisposto ai disturbi alimentari? Il perfezionista

Chi soffre di disturbi alimentari potrebbe avere un tratto di perfezionismo utile a compensare la vergogna, che proviene dai pensieri autocritici e giudicanti. Alcuni studiosi hanno deciso di esaminare meglio questo tratto in una situazione particolare, ovvero quella delle presentazioni. Ovviamente, noi tutti, quando ci presentiamo a qualcuno, vogliamo fare buona impressione, mostrando i nostri lati migliori e nascondendo i difetti o ciò che viene percepito come tale. Esiste però una forma estremizzata di questa nostra naturale predisposizione, chiamata perfectionistic self-presentation (presentazione di sé perfezionista), definita come “il bisogno di apparire perfetti, promuovendo attivamente la propria supposta “perfezione”, non mostrando le imperfezioni che si pensa di avere e occultando o evitando di mostrare le imperfezioni del passato, relativamente a performance, competenze o aspetto fisico” (Hewitt et al., 2003).

Un esempio di questo tipo di presentazione di sé potrebbe suonare più o meno così: “Piacere, mi chiamo XY, sono laureato/a con 110 e lode e lavoro in un’azienda prestigiosa”. Ovviamente, quello che non viene detto riguarda la fatica che si è fatta per arrivare a quel risultato oppure i fallimenti che si sono dovuti affrontare strada facendo. Queste persone sembrano molto sicure di sé stesse ed estremamente orgogliose; in realtà, sono probabilmente i peggiori critici di sé stessi.

Infatti, la presentazione di sé perfezionista può essere considerata come un esito dell’autocritica e un “antidoto” alla vergogna. Essa, infatti, permette di far fronte a sentimenti di inadeguatezza, inferiorità e alla paura del rifiuto (ibidem). Purtroppo, però, è associata a svariate psicopatologie, fra cui l’anoressia. Alcune ricerche hanno studiato questo collegamento attraverso la somministrazione di questionari relativi alla perfectionistic self-presentation e ai disturbi alimentari. I risultati hanno dimostrato che le persone con anoressia nervosa raggiungevano punteggi più alti nei questionari relativi a questo tipo di autopresentazione sia rispetto alla popolazione non clinica, sia rispetto a pazienti con altre patologie psichiatriche (Castro e et al., 2004; Cockell et al., 2002).

Un’altra ricerca del 2014 è stata condotta da Ferreira e colleghi attraverso l’uso di un’intervista semi-strutturata e la somministrazione di alcuni questionari a un campione di 191 donne. Questa ricerca ha dimostrato:

  • che l’autocritica è associata con il bisogno di apparire perfetti agli occhi degli altri;
  • che l’autocritica influenza direttamente e in misura maggiore la severità del disturbo alimentare e dei sintomi depressivi;
  • e che la presentazione di sé come perfetti si manifesta solo dopo aver sviluppato un’insoddisfazione per il proprio corpo.

A volte il controllo sul cibo, la forma del corpo e il peso diventa cruciale nel determinare il proprio valore. Questo dipende dalla necessità di dipingere un’immagine di sé come perfetta, per nascondere i sentimenti di inferiorità e inadeguatezza. Questi sentimenti alimentano i sintomi depressivi e l’insoddisfazione rispetto alla propria immagina corporea.

circolo vizioso autocritica perfezionismo disturbi alimentari

 

I DCA risultano quindi influenzati principalmente da:

  • Vergogna;
  • Autocritica.

Esaminiamole nel dettaglio.

Il ruolo della vergogna

Prova a pensare a quante volte provi una sensazione di vergogna nelle seguenti situazioni:

Al lavoro Mai A volte Spesso Sempre
Con gli amici Mai A volte Spesso Sempre
Allo specchio Mai A volte Spesso Sempre
Quando mangi Mai A volte Spesso Sempre

Se hai risposto “spesso” o “sempre” a tutte è probabile che il tuo problema sia dovuto a una carenza di fiducia in te stesso o ad altri problemi più generali. Mentre se hai risposto “spesso” o “sempre” solo alle ultime due è probabile che soffri di un disturbo alimentare o comunque che la vergogna sia collegata a un problema con la tua immagine corporea.

Ci sono persone che più di altre tendono a sperimentare vergogna in varie situazioni. Questa caratteristica è stata definita shame-proneness (Tangney & Dearing, 2002), traducibile come “propensione alla vergogna”. La vergogna è il sentimento doloroso caratterizzato dal sentirsi difettosi, diversi e imperfetti (ibidem). Di conseguenza, risulta evidente che le persone particolarmente autocritiche sono anche quelle più suscettibili a questo sentimento.

Possiamo però fare in modo che la vergogna non diventi un’emozione paralizzante grazie ad alcuni esercizi, come questo:

Trovate una posizione comoda e chiudete gli occhi. Respirate e sentite l’aria che entra e che esce. Ora pensate a un evento che vi è capitato e in cui avete provato vergogna.

Provate a ricordare com’era questa vergogna per voi.

In che parte del corpo la sentivate.

Come si è manifestata.

Magari siete arrossiti, oppure il cuore ha cominciato a battervi più forte, o il respiro a farsi più affannoso.

Cercate di ricordare che sensazioni avete provato.

Accogliete quelle sensazioni, facendo loro posto dentro di voi. Non scacciatele, rimanete con esse e continuate a respirare. E qualunque pensiero vi passi per la testa, riconoscetelo, e lasciatelo passare. Concentratevi sul vostro respiro se ne avete bisogno. E poi tornate a quelle sensazioni. e infine, con un respiro un po’ più ampio, potete riaprire gli occhi.

Il circolo vizioso dell’autocritica

“Non sei abbastanza”, “Hai fallito un’altra volta, non sei capace di fare niente”. Quante volte ci siamo detti queste parole? Forse troppe. Ci aiutano? Quasi mai. E allora perché continuiamo a pensarle? Perché cadiamo in un circolo vizioso autodistruttivo.

L’autocritica è stata definita come un giudizio negativo che una persona dà a sé stessa e con il quale si punisce per aver commesso errori, per i propri difetti o per alcune caratteristiche (come ad esempio, l’aspetto fisico) che potrebbero portare alla disapprovazione e al rifiuto da parte degli altri. Può essere quindi intesa come una strategia per far fronte alle presunte mancanze di un Sé percepito come inadeguato o inferiore rispetto agli altri (Gilbert, Clarke, Hempel, Miles e Irons, 2004).

Avendo in mente questo concetto è facile capire come un duro giudizio su di sé porti inevitabilmente alla ricerca di soluzioni per migliorare quelli che vengono percepiti come difetti e, conseguentemente, non dover subire il giudizio della gente. Purtroppo la nostra mente non è molto brava a fare ragionamenti così lineari e, a volte, trova degli escamotage che non fanno altro che peggiorare la situazione.

Ad esempio, la vergogna per il proprio aspetto fisico porta a coprire il proprio corpo il più possibile e ad evitare la socialità in quanto ci si reputa inadeguati e/o difettosi e si pensa che gli altri ci respingeranno. È stato però dimostrato che queste “soluzioni” alla vergogna sono associate a una problematica alimentare di cui ultimamente si sta sentendo molto parlare: il binge eating, ovvero il consumare una grande quantità di cibo in poco tempo, associata ad una sensazione di perdita del controllo (secondo l’APA Dictionary of Psychology). A sua volta, il binge eating alimenta l’insicurezza e il disprezzo verso il proprio corpo e porta a valutazioni di sé molto critiche, con una propensione all’odio verso sé stessi (C. Duarte, J. Pinto-Gouveia, C. Ferreira, 2014). Si crea così un circolo vizioso che ci sprofonda sempre di più nella disperazione.

circolo vizioso autocritica

Per capire se sei eccessivamente critico con te stesso, prova a pensare a quanto le seguenti affermazioni ti rispecchino, da 0 (affermazione per niente vera per me) a 4 (affermazione totalmente vera per me):

 

C’è una parte di me stesso che mi critica 0 1 2 3 4
Trovo difficile controllare la rabbia e la frustrazione che provo verso di me 0 1 2 3 4
Mi vengono in mente tutti i miei difetti e ci penso e ripenso sopra 0 1 2 3 4
Non riesco ad accettare i fallimenti e gli ostacoli senza sentirmi inadeguato 0 1 2 3 4
Non mi piace essere quello che sono 0 1 2 3 4

Se hai risposto con un 3 o con un 4 alla maggior parte delle domande è probabile che tu sia una persona fortemente autocritica con te stessa.

Adesso prova a pensare a un amico, a una persona a te cara. Se fosse nella tua stessa situazione, se avesse commesso gli stessi errori, la tratteresti come stai trattando te in questo momento? Se la risposta è no, se la tratteresti con molta più gentilezza di quanto tu stia facendo con te stesso, l’autocritica in te è alta.

Quello che è necessario ricordarsi sempre è che i pensieri non sono la realtà! Tutti noi ogni tanto siamo autocritici verso noi stessi, ma dobbiamo imparare a prendere i pensieri che ci passano per la testa meno sul serio e a motivarci con la carota, non con il bastone.

Per fare ciò, iniziamo con un esercizio: pensiamo a un tratto di noi che non ci piace. Può essere una caratteristica fisica o caratteriale. E ora scriviamo una lettera compassionevole a noi stessi. Una lettera dove, invece di criticare quella parte che non ci piace, cerchiamo di vederla da un altro punto di vista. Pensiamo che è una parte di noi, ringraziamola per quello che ci offre e lasciamo andare qualsiasi pensiero giudicante ci passi per la testa.

Gilbert propone un altro esercizio: cercare di dare una personificazione alla propria voce autocritica, definendone il sesso, l’età, la voce, la postura, i vestiti. Facendo questo, alcune persone si rendono conto che la loro autocritica ha la voce del padre, o della madre, o di un’insegnante che ci stava particolarmente antipatica. Una volta che abbiamo individuato a chi appartiene quella voce chiediamoci: è davvero questa la persona che voglio accanto a me per il resto della vita? O preferirei essere accompagnato dalla voce di una persona più amorevole, più saggia?

E se volete capire quanto la nostra voce interna può farci percepire le nostre caratteristiche in modo molto diverso da come le percepiscono gli altri, guardate questo video: https://www.youtube.com/watch?v=litXW91UauE.

Ora sappiamo che l’autocritica è una componente importante dei disturbi alimentari e che la sua influenza viene esercitata tramite la vergogna. Ma come possiamo modificare il nostro modo di guardare a noi stessi? Come possiamo smettere di giudicarci impietosamente e migliorare la nostra relazione con noi stessi, con il nostro corpo e con i nostri difetti? La risposta sta nella self-compassion.

Riassumendo quanto abbiamo detto finora:

  • l’autocritica provoca vergogna;
  • la vergogna viene nascosta tramite la presentazione di sé perfezionista;
  • la presentazione di sé perfezionista è associata ai disturbi alimentari;

Quindi, i disturbi alimentari sono delle strategie messe in atto per far fronte all’autocritica e alla vergogna.

Le restrizioni alimentari messe in atto da chi soffre di anoressia, associate all’esercizio fisico eccessivo, possono ridurre temporaneamente la vergogna, aumentando l’orgoglio. Il problema è che l’orgoglio può essere mantenuto solo allenandosi sempre di più e mangiando sempre di meno, fino all’estremo (Goss e Allan, 2009; Goss e Gilbert, 2002).

Anche la bulimia può ridurre o aiutare ad evitare i sentimenti di vergogna, ma anche in questo caso l’effetto è temporaneo. Mangiare grandi quantità di cibo in poco tempo e poi indursi il vomito per paura di ingrassare, sono comportamenti che vengono percepiti dalla persona stessa come non normali (tanto che di solito sono messi in atto in segreto); pertanto, la persona continuerà a criticarsi e a percepirsi come difettosa (Goss e Allan, 2009), perpetuando il circolo vizioso.

Kelly e Carter (2013) hanno studiato la relazione fra autocritica, vergogna e disturbi alimentari. Hanno sottoposto alcuni questionari a 74 pazienti trattati per disturbi alimentari. Grazie al loro studio, sappiamo che i pazienti con alta autocritica presentano una patologia alimentare più grave, in parte proprio a causa della vergogna elevata. Le persone molto autocritiche che soffrono di disturbi alimentari potrebbero essere più propense a comportamenti di autoprotezione (come concentrarsi esclusivamente sul lavoro, isolarsi, mettersi a dieta) e/o autodistruttivi (autolesionismo, vomito autoindotto) che hanno il compito di distrarre dalla vergogna, anche se temporaneamente. Tuttavia, alla fine sono proprio questi comportamenti che amplificano la vergogna e l’autocritica.

 

vergogna nei disturbi alimentari

Come agire su vergogna e autocritica

 

A questo punto abbiamo capito che autocritica e vergogna hanno un ruolo molto importante nei disturbi alimentari. Agire su di esse vuol dire ridurre e migliorare anche i sintomi del disturbo. Ma come è possibile modificare il nostro modo di guardare a noi stessi? Per agire su vergogna e autocritica sono stati ideati due approcci un po’ diversi tra loro:

  • la Mindful Self-Compassion (MSC) di Neff e Germer;
  • la Compassion Focused Therapy (CFT) di Gilbert.

La Mindful Self-Compassion

Che cos’è la self-compassion (traducibile in italiano come “autocompassione”)? Secondo Kristin Neff la self-compassion è formata da tre componenti:

  • la gentilezza verso sé stessi, al posto dell’autocritica;
  • un senso di umanità condivisa, al posto di una sensazione di divisione e isolamento;
  • la consapevolezza delle proprie emozioni, anche di quelle negative, per accettarle senza identificarsi totalmente con esse.

È ormai assodato che la self-compassion permette di avere una percezione più sana del proprio corpo e un comportamento alimentare più salutare. In altre parole, chi è più gentile con sé stesso ha anche una migliore immagine di sé e meno preoccupazioni rispetto al cibo. Ma in che modo le variazioni nella self-compassion che si verificano in ognuno di noi da un giorno all’altro influenzano l’immagine che abbiamo di noi stessi?

Due studiosi (Kelly e Stephen, 2016) hanno chiesto a 92 studentesse del college di tenere un diario per una settimana, in cui dovevano annotare quotidianamente:

  • quanto si sentivano compassionevoli verso sé stesse;
  • il loro livello di autostima;
  • il loro livello di restrizione alimentare;
  • il loro livello di intuitive eating (mangiare secondo le necessità del corpo, non in base alle emozioni o a fattori esterni);
  • il loro livello di apprezzamento e di soddisfazione corporea;
  • l’immagine corporea che avevano in quel momento.

Studiando questi diari è emerso che nei giorni in cui le ragazze si trattavano più compassionevolmente aumentava il livello di intuitive eating e diminuiva quello delle restrizioni alimentari; inoltre, era presente più soddisfazione per il proprio corpo. Ma c’è di più: i livelli medi di autocompassione predicevano l’immagine che le ragazze avevano del proprio corpo e le abitudini alimentari adottate nei 7 giorni.

Qual è il meccanismo che spiega questo risultato? È probabile che la self-compassion:

  • permetta di avere più tolleranza al distress (lo stress “cattivo”, che peggiora le nostre condizioni di salute e le nostre capacità cognitive; Schoenefeld e Webb, 2013; Webb e Forman, 2013);
  • stimoli sentimenti di sicurezza (Gilbert, 2005);
  • disattivi i centri della minaccia del cervello, responsabili dello stato di allerta (Depue e Mormone-Strupinsky, 2005; Gilbert, 2005; LeDoux, 1998).

Abbiamo quindi scoperto che la self-compassion ci può aiutare a superare le nostre difficoltà. Ma perché parliamo sempre di self-compassion e non di autostima? Siamo cresciuti con l’idea che una buona autostima sia l’alleata ideale per affrontare tutti i problemi della vita, ma potrebbe non essere così. L’autostima, infatti, è basata sui successi e per mantenerla alta non dobbiamo fallire. Di conseguenza, i fallimenti fanno paura e tale paura alimenta e mantiene comportamenti ossessivi, ad esempio quelli di chi soffre di disturbi alimentari (Blaine e Crocker, 1993; Kernis e Goldman, 2003). Per stare meglio con sé stessi meglio puntare sulla self-compassion.

Training di base: la mindfulness

Non è facile essere compassionevoli verso sé stessi, anche perché in italiano la parola “compassione” ha assunto una connotazione negativa, legata al concetto di “fare pietà”, di essere guardati dagli altri con un occhio pietoso e giudicante. In realtà essere compassionevoli non significa avere pietà di sé stessi, ma trattarsi con gentilezza, con amore, senza criticarsi. Quindi, come si può cominciare ad assumere questo atteggiamento? Possiamo partire da alcuni esercizi di mindfulness. Attenzione: la mindfulness non è una tecnica di rilassamento, ma serve a prendere consapevolezza dei nostri pensieri e a stare con le emozioni che scorrono dentro di noi in quel determinato momento.

  • Esercizio 1: Iniziate trovando una posizione comoda e con un respiro profondo lasciate che gli occhi si chiudano.

Trovate nella vostra memoria una persona che vi ha davvero capito, amato, che ha creduto in voi, qualcuno che ha saputo guardarvi con uno sguardo tenero. Ma un tenero anche ricco di saggezza, di forza.

E ora, ascoltando le sensazioni fisiche, le emozioni, i sentimenti che questo volto, questo sguardo, fa nascere in voi, immaginate di poter donare a questa persona un augurio di pace, di serenità.

Poi, in questo secondo passaggio, unite in questo augurio un augurio anche per voi. Quindi usate il “noi”, come se vi metteste al suo fianco.

E qualunque sentimento emerga, dite di sì, fate spazio.

E poi facciamo l’ultimo passaggio di questo esercizio e cioè proviamo a donare a noi questo augurio.

Immaginiamo che quella persona si allontani, lasciandoci però con questo augurio, perché crede in noi, perché ce lo meritiamo, perché siamo un essere umano come tutti gli altri e come tutti gli altri cerchiamo la serenità, la pace, la gioia.

E poi, ricordandoci che ognuno di noi e che ogni essere vivente cerca gioia, felicità, rivolgiamo un ultimo augurio a tutto questo mondo con cui siamo così interconnessi, tutta questa fitta rete di persone, di vita, dove ognuno di noi cerca la felicità.

E poi, con un respiro stavolta più ampio, riapriamo gli occhi.

  • Esercizio 2: Iniziate trovando una posizione comoda e fate due o tre bei respiri profondi.

Poi pensate a un amico a cui avete voglia oggi di dedicare questo esercizio, visualizzate questo amico come potrebbe essere in questo momento, o come ve lo ricordate dall’ultima volta che lo avete visto.

E poi provate a formulare un augurio che vi piacerebbe fare a questo amico, un augurio che esprima in qualche modo la vostra più sincera gratitudine, il vostro sincero affetto.

E ora provate a immaginare di essere seduti di fianco a questo vostro amico e immaginate adesso di fare questo augurio a entrambi.

Poi pensate a voi, immaginate di vedervi lì seduti dove siete, da fuori, e immaginate di augurare a quella persona che siete un augurio sincero, un augurio proprio per oggi, o per questa settimana che vi aspetta.

Tornate un’ultima volta al respiro, tornate ai suoni e poi quando siete pronti potete fare un respiro più ampio e riaprire gli occhi.

Scarica e prova alcuni esercizi di mindfulness a questo link>>  https://www.studiopsicologiarizzi.it/aggiornamenti/esercizi-di-mindfulness-audio-scaricabili/

La Compassion Focused Therapy

La Compassion-Focused Therapy (CFT) è un approccio psicoterapeutico che mira allo sviluppo della gentilezza verso sé stessi, soprattutto nelle persone che tendono ad essere molto autocritiche (Gilbert, 2005). Ma qual è la differenza con la Mindful Self-Compassion? La differenza principale consiste nel fatto che la CFT considera più tipi di compassione, non solo quella verso sé stessi. La compassione può iniziare da ognuno di questi tre flussi:

  • La mia compassione nei confronti dell’altro che soffre;
  • La compassione dell’altro nei miei confronti quando soffro;
  • La mia compassione nei miei confronti quando soffro (come nella MSC).

La CFT ha dimostrato la sua utilità per il miglioramento dei sintomi del disturbo alimentare (sia esso anoressia, bulimia, binge eating, ecc.): infatti, uno studio di Kelly e colleghi ha studiato la relazione fra CFT e miglioramento del disturbo alimentare tramite l’uso di questionari. Questo studio ha evidenziato che:

  • più la vergogna diminuisce nelle prime 4 settimane di trattamento, più velocemente diminuiscono i sintomi del disturbo alimentare in 12 settimane;
  • più aumenta la self-compassion agli inizi del trattamento, più veloce è la riduzione della vergogna in 12 settimane.

Da questi risultati si può dedurre che la vergogna ha un ruolo di mantenimento del disturbo alimentare e quindi potrebbe essere un aspetto da approfondire durante la terapia, in modo da dargli il giusto peso e trattarlo nel modo migliore. In questo, la CFT ci viene in aiuto: essa è utile per ridurre i sentimenti di vergogna tramite l’aumento dell’autocompassione (ovvero della gentilezza verso sé stessi)

autocompassione e vergogna nei disturbi alimentari

Kelly e Carter (2015), invece, si sono chiesti quale terapia fosse migliore, in particolare, contro il binge eating: una basata sulla self-compassion o una che prevede strategie comportamentali da mettere in atto? Entrambe sono fattibili per un periodo di 3 settimane ed entrambe portano a ridurre il numero di comportamenti di binge eating in una settimana. Tuttavia, la self-compassion riduce il problema alimentare globale, le preoccupazioni per il peso e per il cibo in misura maggiore rispetto alle strategie comportamentali. Inoltre, la self-compassion riduce di più le componenti cognitivo-affettive del disturbo alimentare, come ad esempio la preoccupazione costante per il peso o per il cibo.

Esercizio dello specchio: Chiudete gli occhi, appoggiate una mano al vostro cuore. Entrate in contatto con la parte di voi che è stata più ferita dal vostro sé critico, che si sente inadatta, che non va mai bene, che non è mai abbastanza. Sentite il vostro sé compassionevole che vuole dire qualcosa a questa parte che da tanti anni è stata vessata dalla parte critica.

Appena avete voglia, pensate a 3 o 4 frasi che questa parte criticata e spaventata di voi vorrebbe sentirsi dire in questo momento, che potrebbero aiutarla, e che vengono da una parte di voi saggia e desiderosa di dare una mano e di aiutare.

Adesso mettetevi davanti ad uno specchio ed entrate in contatto con questa parte compassionevole di voi. Respirate e accennate un leggerissimo sorriso. Guardate i vostri occhi riflessi nello specchio: magari ci sono sensazioni di fatica o di tristezza. Come vi stanno le sopracciglia, le rughe, i capelli?

Provate ad andare più a fondo, come se steste guardando un’altra persona. Cosa vi dicono questi occhi? Quali sono le paure che hanno in questo momento? Quali emozioni potete vedere in questi occhi?

Adesso riprendete le frasi che avete scritto prima e ripetetele mentre vi guardate allo specchio. E se non vi piacciono più quelle frasi potete utilizzarne altre. Cos’è che la persona riflessa nello specchio vorrebbe sentirsi dire?

E se arrivano delle resistenze, pensate che questa creatura non è abituata a sentirsi dire queste cose, quindi magari all’inizio non ci crede. Ditele che capite, che sapete che magari non ci crede, ma che volete comunque che senta queste parole. Accogliete le resistenze, perché è da lì che passerà la vostra compassione.

Fate un sorriso allo specchio, anche se la persona riflessa è dubbiosa. Ditele che vi dispiace che abbia sofferto per tutti questi anni, che vi prenderete cura di lei. E sussurrate di nuovo le frasi che le piacerebbe sentirsi dire.

Prima di terminare, provate a guardare più da vicino gli occhi: sono gli stessi che avevate da bambini, gli stessi che si sono sentiti non capiti, e che per la prima volta, forse, sentono che c’è qualcuno che li vede.

E poi, quando volete, potete chiudere gli occhi e sentire che quella parte di voi compassionevole siete sempre voi. Poi, con calma, riaprite gli occhi.

 

Nicole Truzzi

 

BIBLIOGRAFIA

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